Disappunto

Avevo concluso il mio ultimo post dichiarando che probabilmente avrei cambiato telefono. Ebbene, sono stato costretto a farlo mio malgrado.

Un borseggiatore, che forse avrà letto delle mie intenzioni, ha pensato bene di togliermi qualsiasi dubbio sottraendomi lo smartphone dalla tasca della giacca. Il fatto in realtà non mi ha procurato alcun trauma, ma mi ha fatto perdere molto tempo, oltre a numerosi video e foto che conservavo sulla scheda di memoria del telefonino, in ricordo di tanti momenti piacevoli trascorsi con familiari e amici. E pensare che proprio la sera prima stavo per trasferire tutto sul computer, salvo poi rimandare il noioso backup…

Disappunto, ecco, è questa la parola giusta per definire lo stato d’animo che mi ha accompagnato per diverse ore perché lo spiacevole episodio si è verificato per una serie di circostanze casuali. Partiamo col dire che, dopo giornate calde che hanno reso finora questo autunno una piacevole continuazione dell’estate, il giorno del “fattaccio” c’è stato un cambiamento del clima che mi ha indotto a indossare una giacca nella cui tasca esterna ho riposto, per comodità, il telefono che invece abitualmente sistemo, quando esco di casa, nella tasca anteriore dei pantaloni proprio per evitare possibili furti. E poi l’improvvisa decisione di cambiare itinerario per raggiungere la stazione, dove stavo andando per sbrigare alcune faccende, e invece di percorrere Piazza Garibaldi in superficie, come faccio abitualmente, ho attraversato la galleria commerciale sotterranea sulle cui scale mobili, molto probabilmente, il ladruncolo ha avuto l’opportunità di mettere a segno il suo colpo. Quando mi sono reso conto di non avere il telefono in tasca, sono stato colto dal dubbio (o forse dalla speranza) di averlo dimenticato a casa, e così ho usato lo smartphone di un conoscente per telefonarmi, ma ho subito avuto la certezza di essere stato derubato perché mi ha risposto immediatamente la voce registrata del mio gestore di telefonia che mi dava il messaggio di utente non raggiungibile o telefono spento. Ho dovuto perciò seguire l’iter necessario in questi casi: blocco della sim, denuncia di furto con cui fare richiesta di sim sostitutiva, acquisto di nuovo telefono e, parte più seccante, modifica di tutte le password, richiesta al mio istituto di credito di sospendere tutte le operazioni di home banking per le quali è indispensabile l’app installata sul telefonino, installazione sul nuovo apparecchio dei programmi di messaggistica, tra cui whastapp, dove per un banale errore di procedura in fase di registrazione ho perso tutte le conversazioni che pure avevo regolarmente salvato nel cloud. Insomma, 24 ore da dimenticare. Anzi no. Da ricordare. Per non ripetere gli stessi errori. E da raccontare qui per evitare che anche chi mi legge possa in futuro trovarsi in situazioni simili.

Saludos, Amiga’s

Il mistero della sveglia alle 7

Per motivi di organizzazione familiare la sveglia del mio smartphone è programmata per suonare alle 6, ma raramente lo fa, perché la disattivo prima. Infatti, da diversi anni il mio orologio biologico si è modificato e quasi sempre apro gli occhi tra le 5 e le 5.45. In realtà qualche volta mi sveglio anche prima e, malgrado sia stato in gioventù un gran dormiglione, la cosa non mi crea alcun problema. Anzi,  confesso di aver scoperto che mi piace alzarmi quando in casa tutto è silenzio e anche la città dorme ancora. E quando non sono “tentato” da  qualche app che ho sul tablet (prevalentemente giochi di parole, che amo e che mi aiutano a tenere allenata la mente) mi dedico alla lettura di libri, un tempo piacevole attività che, specialmente se svolta a letto, mi preparava a un buon sonno ristoratore. Ma torniamo alle mie sveglie elettroniche. Uso il plurale perché, come saprete, i moderni telefonini danno la possibilità di regolare più orari in cui attivare l’allarme, scegliendone  il suono , la durata e i giorni della settimana in cui dovrà entrare in funzione. Ebbene, qui la faccenda diventa misteriosa perché stamattina, contrariamente al solito, dormivo profondamente quando, alle 7 in punto, la sveglia del mio telefono ha iniziato a suonare. Per evitare che gli altri in casa si svegliassero l’ho subito disattivata e,  sebbene non ancora del tutto lucido, mi sono chiesto perché diavolo avesse suonato, dal momento che non l’avevo programmata.  Appena  superato lo stato di confusione mentale  dovuto al brusco risveglio, ho provato a capire cosa fosse accaduto. La prima ipotesi è stata che avessi involontariamente settato la sveglia e ho controllato. Tesi immediatamente scartata perché gli orari indicati dall’app erano  6.45 e 8.40. Ho perciò pensato che potesse essersi trattato di un avviso sonoro proveniente  da un’attività in calendario, ma anche in questo caso, dopo rapida verifica, ho appurato che nessun appuntamento era inserito per l’ora e la data in cui il telefono ha autonomamente deciso che dovessi svegliarmi.

Alla fine, per quanto inverosimile, sono giunto alla conclusione che ormai l’intelligenza artificiale è già una realtà e il mio smartphone, che “vive” praticamente con me tutto il giorno, (tranne quando mi chiedo dove accidenti lo abbia momentaneamente poggiato e devo chiedere a qualcuno che mi è vicino di telefonarmi per rintracciarlo) ha assimilato i miei ritmi e abitudini e quindi, sorpreso dal fatto che alle 7 stessi ancora dormendo, ha “giustamente” ritenuto di dovermi buttare giù dal letto. Confermando la mia teoria che l’Intelligenza Artificiale sia invece una Deficienza Reale.

Credo che cambierò telefono, ma il mistero rimane.

Saludos, Amiga’s

Zelig ad honorem

A molti, specialmente ai più giovani, il nome Zelig risulta familiare forse solo per un programma televisivo di successo che fa da ribalta a vecchi e nuovi comici.  La trasmissione, infatti, ripropone sul piccolo schermo (una volta si diceva così riferendosi alla tv intesa come elettrodomestico, ma oggi è un termine probabilmente anacronistico, viste le ragguardevoli dimensioni raggiunte dai nuovi modelli) esibizioni di artisti di cabaret nello stile di quelle che a metà anni ’80 andavano in scena nell’omonimo locale di Milano

Tuttavia gli appassionati di cinema, in particolare gli estimatori di Woody Allen, sanno molto bene che quel teatro prese a sua volta il nome dal titolo di un film del famoso attore, regista, sceneggiatore, comico, scrittore e commediografo newyorkese. La pellicola raccontava la bizzarra storia di un personaggio, Leonard Zelig, affetto da una singolare patologia che ne faceva una sorta di camaleonte umano che assumeva tratti caratteriali e finanche fisici di persone con cui interagiva. Il successo del film fece sì che il comportamento da dipendenza ambientale, rara malattia, sia poi stato definito proprio “sindrome di Zelig”.

Fatta la necessaria premessa, vorrei raccontarvi di come negli anni scorsi mi è capitato più volte di sentirmi un emulo di Zelig, anche se in maniera del tutto involontaria e casuale.

 Il mio lavoro mi ha portato spesso a organizzare o partecipare a conferenze stampa, convegni o attività simili dove prendevano parte professionisti dei più svariati settori, oppure esponenti politici di diverso livello e funzione. Ora, a seconda del contesto nel quale mi trovavo, venivo accolto da altri addetti ai lavori che, non conoscendomi, mi attribuivano un titolo che ritenevano mi spettasse. Ed ecco che di volta in volta sono stato salutato come dottore (e ti pareva),architetto, ingegnere, avvocato, professore e perfino…onorevole! Ma se questo accadeva in ambienti dove agivano persone che di tali titoli potevano legittimamente fregiarsi e poteva essere comprensibile che, seppure per erroneo accostamento logico, venissero assegnati anche a me, l’episodio che più di ogni altro mi trasformò in una specie di Zelig ad honorem mi capitò per strada.  In un posto, cioè, fuori  da qualsivoglia riferimento contestuale che potesse anche solo vagamente dare indicazioni  sul mio ruolo.  Stavo andando in stazione per partecipare  alla cerimonia di presentazione di  un nuovo treno destinato ai pendolari dove ci sarebbe stato l’intervento dell’assessore regionale ai trasporti e, a Piazza Garibaldi, mi venne incontro il solito venditore abusivo che, con il più radioso dei sorrisi mi rivolse un allegro quanto speranzoso: “Assesso’, me lo comprate un bel pacco di calzini?”

Saludos, Amiga’s

Leggere è bello

Così si chiamava il mio primo libro di letture delle scuole elementari (ammazza che memoria!). Devo dire che il titolo è condivisibile al cento per cento perché la lettura rappresenta non solo strumento di crescita e conoscenza, ma anche di svago e sviluppo della fantasia. Nonché  di acquisizione del corretto uso del linguaggio. A patto che, ovviamente, quello che si legge sia scritto bene. E qui occorre fare riferimento a un personaggio spesso ignorato, ma che riveste un ruolo fondamentale nella stesura di un libro: il correttore di bozze, da non confondere con il correttore automatico dei programmi di scrittura. Questo oscuro lavoratore, paladino insostituibile della grammatica, dell’ortografia e della sintassi, è impegnato il più delle volte in battaglie epiche contro le mostruosità che per lavoro è costretto ad affrontare, ingurgitando preparati contro i bruciori di stomaco causati dai macroscopici errori che costellano i testi da revisionare che dovranno essere poi pubblicati.

Non solo. Spesso i racconti esaminati sono ambientati in periodi storici contenenti incoerenze cronologiche talvolta grottesche e paradossali. Un po’ come se in un film sui gladiatori comparisse un centurione con l‘orologio  al polso. D’altronde non mi pare che nel cinema esista una qualche figura analoga al correttore di bozze (che da ora in avanti chiameremo, per brevità, cdb ). Ciononostante accade ugualmente che qualche errore sfugga  al pur attento sguardo del nostro eroe che, immancabilmente, lo noterà a pubblicazione avvenuta. Con suo grande disappunto che lo porterà a chiedersi più e più vote come abbia fatto a non vederlo prima e a ricorrere all’ennesima dose di Alka-seltzer  o Maalox  per placare l‘inevitabile  conseguente bruciore di stomaco.  Una delle fatiche più logoranti per lui è rappresentata senza alcun dubbio dall’uso “ad capocchiam” della punteggiatura. A volte sembra quasi che l’autore si sia sadicamente divertito a inserirla a casaccio al solo scopo di torturare il cdb, spinto dall’egoistico pensiero: “E che, devo fare tutto io? Che si guadagni la pagnotta, quel parassita che sfrutta il mio lavoro per campare!”. Sono quelli che definirei scrittori stile IKEA: “Io ti do gli elementi, inclusi punti e virgole, e tu li metti insieme nella giusta forma”. Se non altro, però, la casa di mobili svedesi almeno fornisce le istruzioni di montaggio. Anche se a volte servirebbero le istruzioni per capire le istruzioni.

Vabbè, mi fermo qui . Spero solo di non avere scritto qualche inesattezza, ma sono certo che il mio amico cdb, attento come sempre  e Animato dai migliori propositi, me  la segnalerà. E il vantaggio del web rispetto alla carta stampata, è che si può correggere anche dopo la pubblicazione.

Saludos, Amiga’s

Neotenia psichica

Ė la definizione scientifica per la patologia comunemente conosciuta come Sindrome di Peter Pan.

In pratica è la situazione psicologica in cui si trovano persone che si rifiutano di crescere o che sono incapaci di avere comportamenti maturi e responsabili.

L’ argomento mi èstato suggerito da alcuni episodi che mi sono capitati nelle ultime 24 ore.

Ieri ho visto il film Peter Pan e Wendy, versione “reale”, con attori in carne e ossa, del lungometraggio animato della Disndey prodotto nel 1953 che, a mio parere, era più gradevole e divertente.

Poi, stamattina, mi sono imbattuto in un gruppo di numerosi alunni delle elementari che si apprestavano a salire su un bus per una gita scolastica e ho colto il commento di un passante che, rivolgendosi a qualcuno poco distante, diceva: “Come mi piacerebbe avere ancora quell’età, bella…senza pensieri…” . Nello stesso istante ho ricevuto via whatsapp da un caro amico l’immagine di una maglietta con la scritta “Ė strano avere la stessa età degli anziani”, quasi a sottolineare, sebbene in maniera del tutto involontaria e casuale, il rammarico espresso dallo sconosciuto per la perduta giovinezza.

E, nel pomeriggio, mia sorella mi ha confidato di essersi dedicata a un’attività molto rilassante e piacevole, ovvero sfogliare mentalmente i ricordi più belli della sua vita, legati prevalentemente all’infanzia, sorprendendosi per la sensazione di benessere generata da quei pensieri.

Chi conosce bene la storia di Peter Pan ricorderà che pensare a momenti felici della propria esistenza rendeva più “leggeri” nell’animo e, con l’ aiuto di una polverina magica, capaci di volare. E così ho riflettuto su come i vari episodi da me vissuti nelle ultime ore fossero collegati da diversi elementi: il rimpianto per gli anni della prima gioventù irrimediabilmente passati, la leggerezza d’animo dovuta alla spensieratezza e alla mancanza del peso delle responsabilità, ma soprattutto l’allegria dettata da fantasia e voglia di giocare. Come disse qualcuno, probabilmente George Bernard Shaw, “non si smette di giocare perché si invecchia, ma si invecchia perché si smette di giocare”.

D’altro canto, secondo i pedagoghi il gioco aiuta a crescere e quindi…non c’è via di uscita.

Io, però, quando mi guardo allo specchio mi vedo giovane, simpatico e in forma come quando avevo vent’anni. E questo mi spinge a fare una cosa ben precisa: bere sempre lo stesso vino…

Saludos, Amiga’s

‘ O ciuccio che vola

Quando a Napoli si vuole dire a qualcuno che è un credulone e che ha preso per buona una notizia inverosimile, si usa un’ espressione particolare.

Per esempio, se parlando tra amici qualcuno dicesse:  ”Ieri sera ho incontrato Jennifer Lopez e siamo andati a cena insieme ” e un altro, con aria stupita rispondesse:  “ Davvero? E dove siete andati?” ecco che tutti gli altri gli direbbero in coro: “ Sì, come no? ‘O ciuccio che vola…”per significare che si tratta di una cosa impossibile.

Questo fino a poco tempo fa. Perché il ciuccio, animale che effettivamente non vola, da alcuni mesi a questa parte ha iniziato davvero a volare. E anche piuttosto in alto. Mi riferisco, ovviamente, non al testardo quadrupede, ma alla squadra del Napoli Calcio che è comunemente associata, come molti sanno, proprio  al ciuccio, che ne è stato per decenni il simbolo.

Ebbene, il ciuccio quest’anno ha spiccato un volo che nessuno avrebbe mai immaginato potesse intraprendere. Ma non solo. Dopo avere viaggiato per qualche tempo ad “alta quota” insieme ad altre squadre, ha improvvisamente azionato la “modalità turbo” lasciando che dietro potessero solo vedere la sua coda, sempre più da lontano. E quel che è ancora più bello è che lo ha fatto eseguendo acrobazie sbalorditive, strappando applausi e ammirazione a tutti proprio come accade a chi assiste alle evoluzioni delle Frecce Tricolori, tanto per restare in tema di volo.

Quando ero bambino, e fino a poco più di trenta anni fa, su un piccolo fabbricato in prossimità dei binari di arrivo della stazione centrale di Napoli  si poteva leggere una scritta che, riferita alle poco lusinghiere  imprese calcistiche della compagine cittadina recitava: “Il Napoli resterà sempre un ciuccio, non diventerà mai un cavallo” . Quando quella piccola costruzione fu abbattuta, per motivi che sicuramente non avevano alcun nesso con vicende sportive, il Napoli vinse il suo primo scudetto, e a me sembrò quasi un segno del destino.  Un destino che, a distanza di tanti anni, ha incastrato una serie di eventi che, accaduti nell’anno del primo storico titolo dei partenopei, si sono ripetuti in occasione del trionfo dell’11 azzurro in questo campionato. E sono certo che più di qualcuno avrà  detto che “È  stata la mano de D10S”

Saludos, Amiga’s

Cronaca di uno scudetto annunciato

Faccio una premessa. Avrei voluto pubblicare questo post a cose fatte, ma gli eventi stanno travolgendo la città e stravolgendo le abitudini di quanti seguono con passione le vicende calcistiche del Napoli.

Mancano ancora 11 giornate alla fine del campionato e il Napoli, con 19 punti di vantaggio sulla seconda, è ritenuto da tutti, con ragionevole sicurezza, già virtualmente e meritatamente vincitore del titolo.

L’impresa, perché di vera impresa si tratta quando si sovvertono tutti i pronostici e le “tradizioni“ che hanno sempre visto primeggiare le solite milanesi o la squadra di Torino priva di colori, ha addirittura avuto la capacità di far perdere ai napoletani la loro proverbiale scaramanzia.

Infatti, nei quartieri cittadini si vedono da tempo striscioni  e bandiere che sventolano con sopra uno scudetto tricolore col numero 3 e manifestazioni di entusiasmo a ogni vittoria, perché il Napoli sta deliziando non solo i suoi tifosi, ma anche i veri appassionati di calcio.

Con le giocate dei suoi atleti sta incantando gli spettatori a casa e negli stadi mostrando in tutta Europa numeri di rara bellezza e precisione al punto tale che qualcuno ha detto che sembra di assistere non a gare reali, ma a partite sulla Play Station.

Ancora prima della fine del girone di andata, ovvero alla sospensione del campionato per la lunga sosta dovuta ai Mondiali in Qatar, si era capito che difficilmente il primato degli azzurri sarebbe stato insidiato da una qualsiasi altra avversaria. Con Milan, Lazio e Roma già sconfitte “a casa loro”, le residue speranze di tenere viva l’attenzione su una competizione dominata dal Napoli erano riposte nell’Inter, il cui cammino fino a quel punto era stato compromesso già da cinque sconfitte, ma che con una vittoria sulla capolista a San Siro avrebbe riaperto le danze.

E quando a Milano il Napoli, pur non demeritando, ha perso di misura la sua prima gara di campionato per 1-0, i soliti “esperti” hanno decretato attraverso i media la fine della supremazia dei partenopei che, secondo loro, da qui in poi sarebbero crollati sul piano mentale oltre che fisico. Che avrebbero mostrato tutta la fragilità di una squadra non abituata a competere per mantenere la testa della classifica – perché il primato logora – e che le rivali più titolate e avvezze a lotte di vertice l’avrebbero risucchiata.

Fantasmi del passato di “scudetti persi in albergo”, di prestazioni deludenti nei momenti cruciali, si sono ripresentati per un po’ al popolo di fede azzurra.

Ma l’undici di Spalletti ha smentito e stupito tutti inanellando vittorie su vittorie con prestazioni strabilianti, addirittura incrementando a suon di gol il vantaggio sulle inseguitrici relegate al ruolo di comparse in un film di cui il Presidente ADL aveva, in tempi non sospetti, rivelato il finale tra l’incredulità di tutti, compreso il suo allenatore.

Durante il suo trionfale cammino gli elogi per il Napoli si sono susseguiti provenendo da tutte le parti, perfino dalle sponde delle più accanite tifoserie avversarie che hanno dovuto, loro malgrado, riconoscere la supremazia di una squadra che onora sul campo, legittimando col bel gioco, uno sport troppo spesso messo in discussione per vicende “esterne”.

Avrei voluto evitare di citare, ma non posso farne a meno, la società calcistica italiana più blasonata, amata e odiata che quest’anno allo stadio Maradona ha subìto sul  piano sportivo una delle più cocenti umiliazioni della sua storia (un eloquente 5-1 )e che è divenuta sinonimo di scorrettezza e illegalità per le innumerevoli situazioni che l’hanno vista al centro di polemiche calcistiche e di vicende giudiziarie che con questo sport non dovrebbero avere nulla a che fare.

Ma è risaputo, dove ci sono interessi milionari(e nel mondo del calcio ce ne sono tanti) c’è quasi sempre puzza di malaffare. Per fortuna ci sono eccezioni come il Napoli, una società calcistica che rappresenta una città che molti dipingono esclusivamente come luogo di criminalità, improvvisazione, mariuoli  e furbetti che ha invece dimostrato come si possano raggiungere traguardi importanti senza ricorrere a sotterfugi, imbrogli e corruzione. Per questo, pensando a tutti i sostenitori (in malafede) di questi deprecabili luoghi comuni, vorrei dedicare loro un vecchio proverbio: Vedi Napoli e poi muori. Di invidia.

Saludos, Amiga’s

L’Uomo Granchio

Oggi ho visto l’Uomo Granchio. No, non è l’ultimo film della Marvel in cui si narrano le gesta di un nuovo Supereroe  dotato di poteri straordinari, ma di una persona reale, in carne e ossa.

E che però, a pensarci bene, un potere particolare lo ha usato, anche se in maniera del tutto involontaria e inconsapevole.  Il potere di essere riuscito a catturare la mia attenzione e di farmi riflettere.

Ma procediamo con ordine. Stavo tornando a casa, assorto nei miei pensieri, quando mi sono imbattuto in un uomo sulla sessantina, alto, con i capelli bianchi e dalla corporatura robusta. Indossava un vestito blu che aveva certamente visto giorni migliori, probabilmente proprio come lui. Per camminare  si aiutava con un bastone al quale si appoggiava essendo afflitto da evidenti problemi di deambulazione che rendevano la sua andatura decisamente diversa da quella di tutti i comuni mortali. Procedeva col busto eretto e a testa alta, ma lateralmente, spostandosi di fianco come se stesse percorrendo, spalle alla parete, uno stretto sentiero lungo un precipizio.

Insomma un modo di camminare davvero insolito, specialmente se si considera che il movimento del piede destro avveniva seguendo una traiettoria articolata e a scatti, un po’ come la mossa del cavallo degli scacchi, mentre il piede sinistro veniva quasi  trascinato a seguire.

Nel suo insieme, dunque, la sua camminata mi ha ricordato quella del granchio che non procede dritto in direzione dello sguardo, ma di lato rispetto alla posizione degli occhi. La velocità di avanzamento di Crabman (sarebbe questo il nome che il compianto Stan Lee avrebbe certamente affibbiato all’Uomo Granchio) era paragonabile più a quella di una tartaruga che di una persona normodotata.

E qui ho riflettuto su come, nonostante tutto, quell’uomo avesse la possibilità di camminare autonomamente, a differenza di qualcuno, magari affetto da più grave menomazione, che invece potrebbe non essere in grado di muovere neanche un passo. Insomma, a questo mondo c’è sempre qualcuno che sta peggio.

E così ho smesso di lamentarmi del mio mal di schiena.

Saludos, Amiga’s

Filastrocche per bambini

Qualche giorno fa mia figlia canticchiava un motivetto che mi suonava familiare. Dopo qualche attimo mi sono reso conto che si trattava di una canzoncina che mia madre ci cantava quando eravamo piccoli, una filastrocca musicale per bambini, molto triste.

Ne ho ricordato le parole e la storia, in realtà, più che triste era atroce.

Infatti, raccontava di un matrimonio improvvisato tra un grillo (animaletto ricorrente nella mia vita, sembrerebbe) e una formica con la vicenda che finisce in tragedia prima ancora che le nozze possano essere celebrate, perché “nello scambiar l’anello, il grillo cadde e si ruppe il cervello” e “ la formicuzza,  affranta dal dolore, prese uno spillo e si trafisse il cuore”. Roba che nemmeno Shonda Rhimes sarebbe stata capace di concepire… Anzi, mi viene quasi da pensare che la sceneggiatrice della nota serie televisiva Grey’s Anatomy sia rimasta traumatizzata da bambina da qualche filastrocca del genere, considerata la tendenza che la spinge a far crepare sul più bello i protagonisti dei suoi lavori. Tuttavia, malgrado siano colti da cupa disperazione per l’improvvisa dipartita dei loro beniamini, i fan di questa serie continuano a seguirne le vicende, forse magari sperando (come è accaduto in altre soap) in clamorose resurrezioni…

Tornando al grillo e la formica mi sono chiesto come possa qualcuno avere pensato di comporre una filastrocca tanto crudele da destinare ai bambini. Ma, a pensarci bene, la letteratura per l’infanzia è piena di racconti truci, con orchi che divorano i propri figli, streghe malvagie che finiscono arse vive e altre analoghe crudeltà, segno evidente di criteri – piuttosto discutibili – che in passato si adottavano per allevare e educare i figli.

Ma pur essendo cresciuto tra simili storie, che pure avevano come protagonisti personaggi spaventosi, la mia infanzia è stata serena e priva di fobie o potenziali traumi.

Forse perché quei componimenti avevano proprio il compito di insegnare a distinguere tra fantasia e realtà. Cosa che probabilmente molti bambini e ragazzi dei nostri tempi, generalmente considerati come appartenenti a una generazione più “sveglia”, non riescono a percepire pienamente. Specialmente quelli che cadono in trappole tese nel mondo virtuale di internet e dei social dove spesso si nascondono mostri veri in carne ed ossa.  

Saludos, Amiga’s

ELEZIONI

Stavo assolvendo agli obblighi previsti dalla leva militare in forza alla Capitaneria di Porto di Molfetta quando, nel 1979, furono indette le consultazioni elettorali per il rinnovo dei due rami del Parlamento. Domenica 3 giugno un pulmino Fiat 850 con a bordo sette di noi, incluso l’autista, ci trasportò fino a Bari dove in un seggio allestito appositamente potemmo esercitare il nostro diritto di voto. Pensai che i militari dell’Esercito avrebbero dovuto “esercitare”, mentre noi, essendo in Marina, avremmo dovuto “marinare”. Ma in tal caso non avremmo votato, e allora non dissi nulla…

L’episodio mi è tornato in mente in occasione delle elezioni politiche che oggi ci hanno visti per l’ennesima volta impegnati alle urne e ho fatto alcune riflessioni. Mio figlio, che vive negli Stati Uniti, può votare senza dover fare ritorno in patria, e la possibilità di votare fuori sede è data anche ad altre tipologie di elettori. Oltre ai militari o appartenenti alle forze dell’ordine, possono  votare in un comune diverso da quello di residenza anche persone ricoverate in ospedale o in una casa di cura, i naviganti, i membri dell’ufficio elettorale di sezione, i rappresentanti di lista designati dai partiti.

Tutti gli altri, invece, sono obbligati a raggiungere il comune di residenza a proprie spese, anche se sono previste agevolazioni tariffarie e sconti diversi a seconda del mezzo di trasporto pubblico scelto. Chi invece decidesse di spostarsi con i propri mezzi non avrebbe diritto ad alcun contributo.

E allora penso a categorie come quella degli studenti fuori sede o a coloro che,  per garantirsi un diritto sacrosanto, quello del lavoro, vivono in altre città con disagi affettivi ed economici dovuti alla lontananza dalla propria terra e dai propri cari e ai costi di un altro affitto abitativo e dei viaggi per tornare a casa, quando possibile.

E per andare a votare sono chiamati ad ulteriori sacrifici dovendo sobbarcarsi di nuovi oneri monetari e di spostamenti che, talvolta, sono di svariate centinaia di chilometri.

C’è qualcosa di aberrante in tutto ciò che non trova, per quanto ne sappia, una qualsivoglia logica spiegazione. Specialmente in un’epoca in cui la tecnologia, con i necessari accorgimenti volti a tutelare segretezza e regolarità del voto, consentirebbe addirittura di esprimere le proprie preferenze da casa senza doversi nemmeno recare al seggio elettorale. Con un considerevole risparmio di denaro pubblico oltre a vantaggi concreti per numerose persone tanto sotto l’aspetto economico, quanto quello dello stress.

Magari in un futuro non molto lontano ci si arriverà, e chissà che anche questo non dipenda dall’esito della tornata elettorale.

Saludos, Amiga’s